di Ilaria Chiodi
Sociologia, antropologia, alchimia e paleontologia. Da qui parte, si sviluppa e si nutre la complessa e multiforme ricerca di Claudio Costa (1942-1995), personalità solitaria della storia dell’arte del secondo Novecento.
Nato in Albania da genitori italiani nel 1942, Costa trascorre gran parte della sua vita tra le campagne liguri, legandosi in particolare a Monteghirfo, un piccolo villaggio di contadini. Nonostante la prima formazione in architettura al Politecnico di Milano, Costa dirotterà il proprio fare verso l'antropologia e l’arte-terapia. Eccolo dialogare con antropologi, come l'esploratore norvegese Thor Heyerdahl con cui lavora sulla popolazione neozelandese dei Maori; oppure viaggiare, tra Europa e Africa, per studiare sul campo culture incontaminate.
L’arte, in Claudio Costa, è espressa nella sua totalità. È dichiarazione politica, ricerca dell’essenza, interrogazione sull’origine dell’uomo. È proprio l’interesse per l’uomo e per le categorie fondanti dell’esistenza, la vita e la morte, a fare di Costa un artista impegnato, attento al rimosso e al marginalizzato, rifiuti a cui l’artista dà una seconda vita.
Dunque, non solo artista creatore, ma indagatore dell’anima, dell’uomo e delle cose.
Alla scoperta di questo percorso multiforme, seppur coerente, ci conduce la voce di Stefano Castelli, curatore indipendente e attento conoscitore dell'opera di Claudio Costa.
Qual è il primo impatto con l'opera di Claudio Costa? Quali sono le origini e le linee guida della sua multiforme ricerca?
Antropologia, paleontologia, alchimia. In che modo condizionano la pratica artistica di Costa?
Artista e ricercatore. Quale filo tiene insieme tutte queste esperienze?
Un ritratto di Claudio Costa. Courtesy Museo del Parco di Portofino e C+N Canepaneri.